“Che ne è della tua vita preziosa e selvaggia?”

“Le cure palliative per me sono come una rivoluzione copernicana. Hanno tolto la malattia dal centro dell’universo medico e ci hanno messo la persona. Quindi il malato è colui che in quel momento della sua vita ha una malattia, ma rimane una persona con dei desideri, delle paure, delle speranze. E’ al centro.”

 

Giuditta, psicologa dell’Asl14 di Chioggia, mi ascolta, mentre guida verso il convegno “Umanizzare le cure”. Ci conosciamo da cinque minuti e stasera saremo a Chioggia dove proietterò, grazie a lei e ai suoi colleghi, The Perfect Circle. E’ per colpa di uno sciopero se sono scesa a Padova e non sono andata direttamente a Chioggia.

”Al centro, certo – mi dice – ma cosa vuol dire mettere “il paziente al centro”? Che stiamo tutti attorno a guardare quella persona e la lasciamo lì? Al centro non mi basta”. E già. Giuditta mi ricorda che senza la “relazione”, quell’essere al centro non significa nulla.

Ma “relazione” non è un rapporto qualsiasi, richiede ascolto, rispetto del tempo giusto delle cose, delle paure, ma soprattutto essere “qui e ora”, che è il momento della vita, dell’essere. Questo io non l’ho mai veramente afferrato. Qui e ora. Come faccio ad essere certa di essere qui e ora. Cosa si prova ad essere qui ora?

Entro con Giuditta in una grande sala in cui è in corso il convegno. Una psiconcologa racconta il suo lavoro e il suo rapporto con le sue pazienti. “Qui e ora” è dove cerca di portare le sue pazienti durante le sedute. La paura, il dolore per le cure, le ansie, tutto le porta lontano da quel “qui e ora”. Ci propone un esercizio che solitamente fa con loro. Ci chiede di chiudere gli occhi. Se proprio non riusciamo, possiamo tenerli aperti, ma rivolti verso il basso, non verso gli altri presenti. Sarebbe bene, però, che provassimo a chiuderli. Ci provo. Chiudo gli occhi. Preferirei non farlo, non mi fa sentire a mio agio, in quel luogo pieno di estranei. Ad occhi chiusi ci si può lasciare troppo andare, ma se riescono le sue pazienti, io almeno posso provare. Ci riesco, ma ogni tanto li riapro. Lei, intanto, ci parla e ci chiede di portare la nostra attenzione su alcune parti del nostro corpo. Ci chiede di non pensare ad altro che a quelle parti. “Le piante dei piedi. Andate col pensiero sulle piante dei piedi, sentitele, perlustratele centimetro dopo centimetro, spostatevi appena a destra, poi a sinistra, poi verso l’alto, ora verso il basso…”. Improvvisamente le sento, non le penso e basta, e, di colpo, diventano pesantissime. Ne sento ogni centimetro a contatto con il pavimento, poi risalgo, come mi chiede lei, e sento i glutei sulla sedia. Non mi sembrava così dura, appena seduta, ora mi sembra durissima, robustissima. Continuo a salire e mi fermo sul respiro.  Mi risuona nelle orecchie. E’ rumoroso e mi chiedo se anche gli altri lo sentano. Non dovrei chiedermelo, la psiconcologa ci chiede di non pensare, solo di perlustrare il nostro corpo. Ma è davvero difficile non pensare e io non so come riesca a non far pensare le sue pazienti, perchè sono per lo più donne. Come fanno a non pensare a quella malattia così invadente che si fa strada a spallate nella loro vita?!

Cerco di ascoltarla di più. Penso ad ogni sua parola e sento il mio respiro, come non mi era mai successo di fare in vita mia, eppure non ho mai smesso di respirare, ma ora lo sento ed è davvero rumoroso. Allontano il pensiero di non voler disturbare per riportarmi sul respiro e allontano tutti i pensieri che arrivano a disturbare me, non mi interessa nemmeno più aprire gli occhi per vedere cosa fanno gli altri.

La psiconcologa, senza lasciare mai spazio al silenzio, per non fare infilare quei pensieri distraenti, legge una poesia. Parla di una cavalletta. Noi dobbiamo cercare di immaginarla, di vederla nei pensieri.

E’ lì che mangia l’erba. Sposta le mandibole avanti e indietro, non su e giù. Poi sento il suono delle sue ali che vibrano e allontano il pensiero che mi sfotte perchè non mi ero mai accorta che le cavallette avessero le ali. Torno sul respiro e perdo un pezzo della poesia ma poi mi riaggancio e sento il profumo dell’erba, non più l’odore stantio degli esseri umani in quella stanza. Torno all’erba, appena tagliata e profumata. Come quando ero piccola e mi stendevo sul prato appena tagliato che mi sporcava le magliette, ma era profumato e fresco. E se ero sudata l’erba mi si appiccicava addosso, con quel profumo di estate che avrei voluto durasse per sempre. Un po’ mi perdo, ma poi mi arrivano le ultime parole della poesia:

 

”Che ne è della tua vita preziosa e selvaggia?”.

 

Mi è venuto un brivido. Selvaggia. Mi è arrivata sulla pelle, quella vita che io, un secolo fa, avevo vissuto in modo selvaggio. Che ne è di quella vita? E mi sembrava di sentire il profumo di quei campi, il richiamo dei prati, e quell’urgenza di essere, di sentire che non voleva farsi fagocitare dall’apparire, dal fare, dal progettare, che non sono meno minacciosi per il mio essere solo perché rimandano ad un saper fare. Sono minacciosi perchè portano in un altrove che non è l’attimo in cui si è. Così quell’attimo se ne va non sentito, non amato, non pensato. Mentre immaginavo quella cavalletta, ero “qui e ora” e per un attimo ho sentito il brivido della vita, l’ho tenuta tra le mani, ha spento tutti i pensieri ed ero solo felice.

La vita sa di felicità ed è un’emozione che dura un attimo.

Poi i pensieri sono tornati, abbiamo aperto gli occhi, non c’erano cavallette, non c’era l’erba, ma solo una stanza piena di persone che mi sembravano meno estranee e con cui ora c’era una sincronia. Avevamo tutti lo stesso tempo.

Ho pensato a Meris e alle sue sedute di musico-terapia. Mentre giravamo il film, rimanevo incantata dalla sua capacità di astrarsi e lasciarsi andare ai pensieri, sulle note di quel piccolo stereo portatile. Poi ci raccontava di immagini bellissime e sembrava di vederle. Era la sua vita preziosa e selvaggia che le arrivava, erano le gambe che faticavano sui sentieri, che sentiva, quel respiro affannato che, in cima ai monti, diventava sollievo e leggerezza, una scarica di endorfine che la faceva essere “qui e ora”, per un tempo infinito.

Ora, finalmente, lo capivo. Poi tornava la malattia e il suo corpo sfidante, ma in quel momento, lei sentiva di avere tra le mani la sua preziosa vita.

Ci sono persone che hanno molto dolore e, dopo un’operazione, dimenticano alcune parti del loro corpo. La psiconcologa del convegno chiude il suo intervento con le parole di una sua paziente, che ha seguito un lungo percorso di terapia nel gruppo di lavoro e ora sta molto bene:

 

”…ora con pazienza ascolto, mi fermo, affronto. Questo corpo, da nemico sta diventando amico e dentro ci respiro con gentilezza.”

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