“E adesso come faccio ad andare avanti?”.

All’incontro Cinema e Thanatos, sedevo al tavolo dei relatori assieme al professor Gelsi, esperto di cinema, Maria Angela Gelati, tanatologa, e a Nicola Ferrari, psicopedagogista che svolge attività di sostegno alle persone in lutto, nell’Associazione Maria Bianchi di Suzzara (MN). A moderarci, l’instancabile Elena Alfonsi, critica letteraria, nonché organizzatrice della serie di incontri legati alla morte e all’arte. La cornice era quella della casa del Mantegna, a Mantova. Dopo essermi accomodata, ho messo sul tavolo il mio Moleskine e la penna, certa che, durante gli interventi, avrei sentito cose interessantissime che avrei voluto conservare. Il dottor Ferrari mi ha guardata sorpreso, con un leggero sorriso.

La sua espressione mi sembrava una domanda, così ho risposto: ”Sono una grafomane”.

Lui ha riso e mi ha chiesto se conoscessi la sua associazione e se avessi mai sentito del loro modo di aiutare le persone ad affrontare il lutto, attraverso la “narrazione guidata”, la scrittura. Colpevolmente, non ne avevo mai sentito parlare.

“Rispondiamo ad email di richieste d’aiuto. Il meccanismo della narrazione guidata aiuta a trovare le parole che ti corrispondono, per il lutto che stai affrontando, per quel dolore che hai dentro. Quando trovi le parole giuste, quelle che ti descrivono esattamente, e le pronunci, le scrivi, queste diventano realtà e allora il dolore può divenire, trasformarsi, può essere affrontato”.

E’ un portar fuori il dolore, per poterlo vedere, guardare in faccia, riconoscerlo e farlo esistere, trasformare, come tutto ciò che è nel mondo. Il dottor Ferrari, poi, nel suo breve e densissimo intervento ha raccontato della prima volta che fece qualcosa assieme a suo padre, loro due soli, di quel film potentissimo che videro al cinema “2001:Odissea nello spazio”, di Kubrick.

“Mi colpì quel monolite nero, che stava lì e non si sapeva cosa fosse, da dove venisse, cosa nascondesse”, disse. E’ forse quello, il monolite, che dobbiamo affrontare nel lutto e trasformare in qualcosa di intelligibile, di pronunciabile.

Dobbiamo trovarlo dentro di noi, cercare le parole che lo raccontano, così che possiamo portarlo fuori e affrontarlo. C’è un’assenza con cui fare i conti, con cui si deve convivere e si deve comprendere cosa ne vogliamo fare. Narrare, narrarsi, fa questo, crea contesti e relazioni per cui possiamo chiederci in sicurezza: come vado avanti?

Alla fine del suo intervento ho pensato a tutte le volte che ho scritto e riscritto le “note dell’autore” di The Perfect Circle, che ho ritoccato, modificato, per poi tornare a quella prima intuizione, quello che chiamo il “tema del film”, ovvero quella cosa che esce nel terzo atto di un film e ha la presunzione di voler essere una scoperta “che potrebbe aiutare a vivere meglio”. Non si tratta di una morale, ma di un dispositivo drammaturgico che conclude la vicenda del protagonista del film e consegna allo spettatore un piccolo pezzo di sapere che può trasformarsi in suggerimento, da accogliere o rigettare. Non starò certo a dirvi qui di cosa si tratta, vi svelerei il finale del film, però posso dirvi che cercando di esprimerlo, di renderlo comprensibile ad altri, trasmissibile, sono riuscita a metterlo a fuoco, anche se per gradi, a volte allontanandomi e poi riavvicinandomi, dando forma a ciò che io avevo imparato dopo 19 anni di malattia di mia madre. The Perfect Circle ha avuto, e ha tuttora, una funzione catartica per me, che non si è esaurita nella realizzazione del film, e si attiva ogni volta che ne parlo o lo mostro, che rispondo alle domande o alle email di chi ha visto il film e desidera mantenere un contatto. Ora mi è forse più chiaro il modo in cui è stato catartico. Tutta la scrittura che la mia professione richiede mi ha permesso di individuare il mio monolite, di trovare la mia parola e ora posso pronunciarla: apnea. Una lunga apnea, che è iniziata con la malattia di mia madre, che diventava prova di resistenza in piscina, nel mio ossessivo andare avanti e indietro, urlando sott’acqua dove nessuno poteva sentirmi o trattenendo il fiato il più a lungo possibile, si è conclusa con un ritorno alla vita, con una boccata d’ossigeno a pieni polmoni. Credo sia stato quando ho smesso di chiedermi che senso avesse quello che ci stava accadendo e sono riuscita a riappropriarmi delle piccole gioie ed emozioni di ogni giorno. Ricordo ogni istante in cui i miei polmoni hanno respirato pienamente perché riuscivo a godermi mia madre, nonostante la sua malattia; le risate mentre guardavamo “Ma papà ti manda sola?!” con Barbra Streisand, i gelati come ricompensa per gli esami medici, le nostre danze sul terrazzo, quel temibilissimo seggiolino rotante delle cabine per fototessere che le faceva girare la testa e mi faceva sprecare soldi perché lei finiva fuori dall’inquadratura (in quel caso gelato doppio), il cappuccino e la brioche per gli esami del sangue. Ringrazio davvero di cuore il dottor Ferrari per lo squarcio di consapevolezza che mi ha regalato. The Perfect Circle sembra, sempre di più, offrirsi come un catalizzatore di incontri rivelatori e, a volte, come un rituale collettivo per affrontare quel monolite che può mettersi tra noi e la vita.

Vi segnalo l’Associazione con cui il dottor Ferrari lavora: www.mariabianchi.it.

 

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