Immagini nella cura e nella formazione: The Perfect Circle

 

VIII.

The Perfect Circle.

Do not go gentle into that goodnight

 

Un film documentario girato in un hospice, che racconta due storie d’amore e la possibilità di dare un nuovo senso al vivere.

  1. Il film e i protagonisti

Ivano era entrato da poco in hospice. Aveva il viso scavato dalla malattia, la moglie sempre accanto, quasi mai visite. Li ho conosciuti il giorno di Pasqua, mentre ero in hospice, in cerca dei protagonisti per il mio film. Abbiamo chiacchierato per ore delle piccole cose di ogni giorno: il cane che invecchia e fatica a camminare, le macchine fotografiche digitali che fanno passare la voglia di fotografare, il parmigiano reggiano di montagna che è un’altra cosa rispetto a quello di pianura. Ivano è un vecchio burbero, maestro del “bastone e la carota”. Carla, la moglie, era in imbarazzo:

“Non era così prima – mi disse – ma ora ho capito che è questa malattia che lo ha cambiato. Ora sono diventata brava, non gli rispondo se mi tratta male. Una volta, però, non tacevo mica, non gli avrei mai permesso di mettermi sotto”.

A me quel fare secco, sarcastico, non creava disagio. Ivano era un uomo autentico e mi sarebbe piaciuto molto averlo nel mio film, perché mi piaceva stare con lui e Carla. In quella stanza c’era tutto ciò che cercavo: il desiderio di trattenere e quello di lasciare andare, ma anche un certo senso di casa. Il giorno dopo mi sentii abbastanza sicura da azzardare la mia proposta:

– “Ivano, io in questi giorni girerò un film in hospice, ti va di essere un protagonista?”

– “Ma che film vuoi girare in un hospice?”

mi chiese dopo averci pensato un po’ su. Volevo fare un film che raccontasse la possibilità di dare un nuovo senso al vivere quando la morte è dietro l’angolo, un film che inchiodasse lo spettatore ad una vicinanza tale con la malattia da non vederla più per cogliere, invece, la persona dentro il corpo malato. Non potevo certo dargli questa risposta. C’era una regola d’oro a cui non mi sarei mai sottratta, quella di rispettare il suo diritto di non sentirsi dire nulla per cui non fosse pronto, senza però raccontare menzogne.

– “Voglio fare un film su questo hospice e il modo gentile in cui si prendono cura di voi. Molte persone non conoscono questi luoghi e finiscono con lo stare a casa, o in reparto a soffrire. Sei d’accordo?”.

Lo pensavo davvero.

– “Sì, ma io non voglio essere nel tuo film. Troppo triste. Chi vuoi che lo veda un film così?!”.

Scosse ripetutamente il capo. Non me lo aspettavo. Mi ero giocata la mia unica chance con lui. C’era un’altra regola che dovevo rispettare: il paziente ha la precedenza sulle mie necessità. Lui avrebbe deciso se fossi dovuta rimanere in stanza o andarmene, senza dovermelo ripetere due volte. Presi quel suo no come un invito

a non disturbarlo più e dopo un’oretta me ne andai. Cinzia, un’infermiera, mi rincorse e mi disse che una paziente avrebbe voluto incontrarmi perché aveva saputo che avrei girato un film nell’hospice. Questa paziente era Meris. Me la raccontarono come un “caso di successo”, una donna straordinaria che, grazie anche ad un lungo rapporto con l’hospice, era riuscita a fare un percorso che l’aveva portata all’accettazione della malattia, qualunque cosa questo significhi. Di quale materia è fatta l’accettazione? Quando conobbi Meris mi dissi che doveva essere fatta della bellezza della sua famiglia e della capacità di Meris di farsi amare: sulla parete c’era una lunga lista di nomi di persone che si erano prenotate per farle compagnia. Eravamo solo all’inizio del mese, eppure il calendario era tutto già pieno. Non chiacchierammo a lungo. Lei volle sapere di che film si trattasse, mi promise che si sarebbe sempre fatta trovare pronta e mi assicurò che qualora non l’avessi trovata interessante e mi fossi annoiata, avrei avuto tutto il diritto di andarmene. Mi avrebbe mostrato fotografie, filmini in super8, avrebbe fatto venire tutti i suoi parenti ed amici, perché li voleva tutti nel film.

– “Solo se volete…”,

continuava a ripetere. Sembrava che fosse lei a chiedermi di girare un film e temesse di disturbare. Ci lasciammo con la promessa di iniziare l’indomani. Finalmente avevo la mia protagonista. Non era previsto che andasse così, il film doveva essere su un medico palliativista dell’hospice che ammiro molto, ma pochi giorni prima delle riprese lui mi disse che aveva necessità di staccare un po’. Era in burn out. Aveva gli occhi umidi mentre me lo diceva. Non insistetti e lo lasciai andare, ammirandolo ancora di più, per quel suo coraggio di mostrarsi fragile. Rimasi, però, fedele all’idea di voler raccontare la conquista di un nuovo senso del vivere. Pensavo che sarebbe stato più difficile, perché non avrei avuto il medico a schermarmi, a proteggere i pazienti. Ora la relazione era tutta nelle mie mani e io non sapevo se fossi davvero pronta. Iniziai le riprese con Meris, ma dopo un paio di giorni ci fu una sorpresa. Ivano, che non ero più andata a trovare, perché ero impegnata, mi intravide nel corridoio e mi urlò di entrare. Mi chiese dov’ero finita.

– “Sono dalla Meris, una signora molto più simpatica di te che mi ha chiesto di essere nel film”, gli dissi.

Lui mi sorrise. Il viso gli era diventato luminoso e disteso. Scosse la testa con accondiscendenza e mi disse:

– “Chiedimi ora se voglio fare parte del tuo film e vediamo cosa ti rispondo”.

Ho ancora il dubbio che Ivano abbia accettato di farsi riprendere per essere certo che lo andassimo a trovare con regolarità e lo aiutassimo a far passare il tempo. Meris, invece, non avevo dubbi che volesse davvero essere la protagonista del film, ma non senza tutta la sua amata e splendida famiglia. La sua psicologa mi disse che era il suo modo di consegnarsi all’eternità. Sono stata fortunata, nel mio film avrei avuto la donna più dolce e battagliera del mondo, e un uomo burbero e arrabbiato, ma capace di un’estrema gentilezza e tenerezza.

  1. Lo stile del film: lasciare emergere

Sullo stile del film non ho mai avuto dubbi. Sarebbe stato un film di osservazione. Non volevo interrogare i pazienti; non sentivo di avere gli strumenti per poterlo fare. C’era pur sempre la regola d’oro che mi imponeva di non minare il loro fragile equilibrio. Mi era stato permesso di stare in ascolto e io questo volevo fare. Inoltre, non amo le interviste, parlano più alle teste che ai cuori e io non volevo spiegare le cure palliative, non volevo indagare la paura della morte e come, e se, la si supera mai, volevo solo capire come possiamo fare entrare la malattia e la morte nella vita di ogni giorno. Senza ingannare o mentire, volevo raccontare le montagne russe che agitano il nostro animo quando incontriamo la malattia e quella sensazione di sollievo che l’accettazione della temporalità della vita sa dare. Per farla breve: un pugno allo stomaco, prima, e una sensazione di rinascita, poi. Non volevo raccontare la favoletta che la cura riserva solo gioie per chi la presta e chi la riceve. La malattia manda all’aria la vita di chi si ammala e di chi sta intorno e questo si traduce in rabbia, rifiuto, depressione, pensieri che non osiamo confessare nemmeno a noi stessi. Ma se non comprendiamo che questa fragilità non è un’anomalia, bensì la normalità, allora rischiamo di non goderci il bello e il buono che c’è – perché ce n’è – e inneschiamo dentro di noi una bomba ad orologeria. Durante i 19 anni di cura di mia madre, afflitta da una malattia cronica, un’epatite C contratta durante un’operazione chirurgica, mediante una trasfusione, ho provato ogni genere di emozione, dalla rabbia, alla voglia di fuggire, al desiderio che tutto finisse il prima possibile o che durasse per sempre e non finisse mai. Le cose non facevano che peggiorare ed ogni volta ci adattavamo: il fegato che funzionava sempre meno, la mobilità sempre più difficoltosa, le energie che si riducevano. Eppure, come per magia, ad un certo punto, il luogo più desiderabile per me era diventato proprio quello accanto a lei. Ci siamo divertite, abbiamo ballato sul terrazzo, abbiamo camminato lentamente a braccetto in tanti luoghi, abbiamo fatto finta di nulla guardando esami che ci aspettavamo migliori, abbiamo invertito i ruoli. Qual è la verità della mia esperienza? Il dolore o l’inaspettata accettazione? L’angoscia o i momenti di felicità? Credo che sia tutte queste cose assieme, nel grado in cui si sono manifestate negli anni. Questo doveva esprimere il mio film ed è proprio questo vissuto che mi ha spinta a pensarlo. Volevo condividere la mia conquistata consapevolezza che nella cura e nella malattia c’è anche tantissima vita, una vita spesso sconosciuta, quella che scorre lenta, in cui ogni parola ha importanza, un sorriso cambia la giornata, il silenzio riempie di senso, quella in cui scopriamo che dentro e attorno a noi abbiamo molta più bellezza di quanto pensassimo.

  1. Come abbiamo lavorato in ripresa?

Ci siamo limitati ad una troupe molto leggera, composta da me e il direttore della fotografia. Non abbiamo cercato di essere invisibili, – quello dell’invisibilità è un mito che va sfatato – ma di proteggere l’intimità della relazione. Dentro alle stanze ci siamo sempre mossi pochissimo, soprattutto durante le sedute terapeutiche. E poi, siamo stati noi stessi, ci siamo affezionati, forse anche un po’ innamorati di loro. Dopo 19 anni di esperienza con mia madre c’erano alcune cose che avevo imparato: 1) le persone che affrontano una malattia non vogliono stare sole 2) i loro famigliari non vogliono stare soli 3) il pietismo non è benvenuto. In più c’era tutto quello che avevo imparato dalle psicologhe, dalle infermiere, dalle OSS e dalle dirigenti dell’hospice negli anni in cui lo avevo frequentato. Ero stata seguita a vista e coinvolta nella quotidianità dell’hospice, quindi sapevo entrare nelle stanze con una certa discrezione, senza lasciare fuori dalla porta quel brio che fa parte del mio modo di essere. Ero me stessa, con misura e con rispetto delle persone che mi davano il benvenuto. Avevo il programma delle attività dei pazienti e venivo ragguagliata sugli incontri che avrebbero avuto, gli appuntamenti che avevano richiesto. Per ogni situazione mi interrogavo su quale fosse il conflitto da cogliere e davo istruzioni al cinematographer, con cui parlavo lungamente ogni sera mentre guardavamo il materiale girato per capire cosa aveva funzionato e cosa no. Ci siamo totalmente isolati da tutto e abbiamo alloggiato accanto all’hospice, in una canonica immersa sulle colline. Brand, il cinematographer, essendo macedone, comprendeva poco ciò che veniva detto. All’inizio pensai che sarebbe stato un problema, invece si rivelò una ricchezza, perché il suo occhio fu più attento ai gesti, agli sguardi, alle reazioni del corpi, alle variazioni di ritmo, ai conflitti che emergevano. Cosa intendo per conflitto? Per esempio, Meris che si rilassa ascoltando la musica con la terapeuta, ma stringe compulsivamente il fazzoletto in un non-verbale che esprime il suo stato d’animo; oppure il disagio stampato sul viso Meris mentre le signore che le fanno visita parlano dell’hospice come luogo di morte, come se lei non fosse presente. Il momento più difficile da gestire è stato la mia imprevista chiamata in scena da parte Ivano. Durante una sessione di musico-terapia, Ivano si innervosì e disse che voleva essere lasciato in pace. Noi uscimmo e dopo qualche minuto ci mettemmo fuori, nel corridoio a riprenderlo, mentre sedeva accanto alla finestra. Quando ci vide, ci chiese di entrare, ci disse di sapere che stavamo girando, ma ci voleva nella stanza, non fuori.

– “State girando? Sì, lo so che state girando, vieni dentro, dai, vieni qui, mettiti a sedere”, mi disse.

Io chiesi al cinematographer di staccare, non volevo essere nell’inquadratura e volevo mantener fede alla sua richiesta di essere lasciato in pace di poco prima. Brand mi disse che lo avrebbe fatto, invece continuò a girare perché, dal suo punto di vista, Ivano era consapevole della camera e ci aveva chiesto lui di entrare. Sono felice che Brand abbia agito seguendo la propria intuizione, perché mi ha dato la scena centrale attorno a cui è stato costruito tutto il film. Io mi sedetti di fronte ad Ivano. Lui volle raccontarmi perché aveva cacciato tutti e mi fece una domanda, ma non risposi. Mi metteva in competizione con la terapeuta e io non volevo stare al gioco.

– “Parla, non fare la parte muta!”, disse letteralmente.

Tergiversai. La presi talmente alla larga che lui riprese la parola. Io volevo e potevo solo stare in ascolto. Da quel momento l’impostazione delle riprese cambiò. Un nuovo personaggio era entrato nel film – io – e doveva continuare a vivere. Al film si aggiungeva un nuovo livello, forse il più importante, quello che raccontava il passaggio dal fuori al dentro. Alla fine di una proiezione una spettatrice che non sapeva come avessi reclutato i pazienti (errore mio, in quella occasione, non avere introdotto il film presentando l’hospice e che tipo di accordo avessi coi pazienti) mi chiese:

– “Non ti sembra di avere aggiunto dolore ad una situazione già dolorosa, violando l’intimità di quelle camere con la telecamera?”

Per mia fortuna mi venne in aiuto il marito di Meris che era presente e volle rispondere. Lui disse:

– “No, Claudia non ha aggiunto dolore. Mia moglie, dopo che aveva saputo che c’era una regista che voleva fare un film in hospice, chiese subito di conoscerla e quando si accordarono, da quel momento si fece portare in hospice tutti i suoi scialli più belli, i foulard e le federe colorate. L’idea di essere nel film la rese nuovamente la donna vanitosa di cui mi ero innamorato. Dopo un periodo critico per la sua salute, stava rifiorendo e io riebbi la moglie bellissima di cui mi ero innamorato”.

  1. Cosa sta accadendo ora al film?

The Perfect Circle sta viaggiando molto. Ha una sua casa, un blog, www.theperfectcirclefilm.com, che aggiorniamo con le date delle proiezioni e i racconti del nostro tour in giro per l’Italia e l’Europa. Abbiamo scelto una modalità di distribuzione non convenzionale, Movieday.it, una piattaforma che permette agli spettatori di prenotare il film nelle sale delle loro città senza dover sostenere alcun costo. I distributori non se la sentivano di portare nelle sale un film che parlasse di fine-vita, così abbiamo pensato di coinvolgere direttamente gli spettatori e fare in modo che fossero loro a coinvolgerne altri. Volevamo che il film fosse anche uno strumento per aggregare una comunità di persone che vuole parlare di vita, di dignità, e anche di morte, proprio per vivere meglio e fare della vita un’esperienza piena. Abbiamo dato il via al tour con una proiezione al Parlamento, davanti ad un nutrito pubblico di cittadini, palliativisti e parlamentari della commissione Affari Sociali. Lo abbiamo fatto perché volevamo creare dei ponti tra palliativisti e parlamentari mentre la Commissione si trovava a lavorare su una Legge sul Fine-Vita. Anche Mina Welby era presente. Alla fine della proiezione mi ha preso le mani e mi ha detto

“Questo film è pura poesia. Fallo girare, fallo vedere”.

Penso spesso a lei e a quella sua dolcezza, mentre mi sussurrava di darmi da fare perché il film avesse una vita. Abbiamo già fatto una trentina di proiezioni e molte altre sono in programma. E’ abbastanza difficile convincere le persone a vederlo, ma poi, è molto frequente che lo vogliano rivedere. Ci sono persone che lo hanno visto 3, 4 e persino 6 volte. La visione nel buio della sala, con i suoni che vibrano nelle viscere, le lunghe chiacchierate alla fine, le email che arrivano dopo le proiezioni; è come se si trattasse di un rito collettivo che ci fa finalmente prendere fiato dopo una lunga apnea, che ci protegge con una rete di sicurezza. A suo tempo distribuiremo i DVD del film anche per l’utilizzo in formazione, ma per il momento c’è ancora bisogno di vederlo assieme, sul grande schermo, affinché le due bellissime storie d’amore di Mario e Meris e di Carla e Ivano possano scuotere le persone davvero nel profondo e continuino a tessere relazioni (info@movimenta.net).

(questo contributo è contenuto nella pubblicazione IMMAGINI NELLA CURA E NELLA FORMAZIONE edito da Pensa Multimedia, a cura di Vincenzo Alastra e Barbara Bruschi)

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