Le morte violenti o insolite hanno sempre interessato i registi, ma la “morte quotidiana”, quella in cui la malattia e la vecchiaia consumano una persona, è stata più raramente raccontata sul grande schermo. Mentre nella rappresentazione di morti violente l’attenzione si concentra per lo più sulle circostanze del morire, in quella della morte quotidiana, l’attenzione è rivolta alle persone e al loro atteggiamento rispetto alla prossimità della morte. Il festival DocPoint (Helsinki) di quest’anno presenta due documentari sulla morte e sulla cura di fine vita. Seven Songs for a Long Life (2015) descrive la vita di tutti i giorni in un hospice scozzese e The Perfect Circle (2015) quella di due malati, in fase avanzata, in Italia. Entrambi i documentari mirano a sottolineare che la vita è significativa, fino alla sua fine.
L’interesse per i morenti è cresciuto in modo particolare durante l’ultimo decennio. L’attenzione alla morte “ordinaria” è aumentata in concomitanza con il diffondersi delle cure di fine vita. Queste preparano il paziente alla morte imminente. L’obiettivo è quello di trasformare qualitativamente l’esperienza del morire, in modo che la cura non si concentri solo sui sintomi fisici, ma anche sui bisogni emotivi, psicologici e sociali del paziente. I due film, Seven Songs for a Long Life e The Perfect Circle pongono entrambi l’individuo al centro e danno un’immagine umana all’attesa della morte. Eppure, i due documentari hanno un approccio molto diverso.
Seven Songs for a Long Life di Amy Hardie ritrae eroi quotidiani, sia pazienti che membri del personale, che si rifiutano di lasciare che la morte definisca la propria identità. Invece del soffrire, il documentario evidenzia la necessità di godersi la vita in tutte le circostanze. Come suggerisce il titolo del film, la musica gioca un ruolo significativo nella trama. Il film ruota attorno all’idea che, insieme alla medicina, la musica possa essere utilizzata come strumento terapeutico per migliorare il benessere.
Nelle sue precedenti opere, Amy Hardie aveva già lavorato sulla salute. Questo documentario si ispira al periodo in cui la Hardie ha lavorato come regista presso lo Strathcarron Hospice, dove il canto è diventato uno dei modi per celebrare la vita, creare ricordi condivisi e affrontare i sentimenti legati alla morte. Le scene in cui le persone cantano davanti alla telecamera, sia da sole che insieme agli altri, sono molto commoventi. Le canzoni parlano di malinconia, di lasciar andare e di amare; i temi che la morte imminente suscita nella mente delle persone. Allo stesso tempo, danno al documentario un tono fresco e caldo, mettendo in risalto la gioia di vivere.
Le cure palliative sono destinate ad essere prestate ad un numero sempre maggiore di pazienti. Grazie ai progressi della medicina, anche le malattie incurabili possono essere rallentate. Quindi, la fase terminale di una malattia può durare da pochi giorni a decenni. Vivere con la morte come compagno costante provoca la consapevolezza perenne della morte e l’incertezza del futuro. Seven Songs for a Long Life esprime la speranza che questa incertezza non si porta via la gioia del presente, mentre The Perfect Circle affronta la morte con un feroce spirito di ribellione.
The Perfect Circle si interessa, nella stessa misura, al senso delle problematiche umane e sociali, proprio come nella produzione precedente della regista Claudia Tosi e della sua casa di produzione, Movimenta. In questo documentario, la morte è vista come una parte del ciclo della vita, una parte inevitabile del destino umano. Eppure, questo non significa che la sua fatalità debba essere accettata passivamente. Questo impeto ribelle si riflette anche nella logline presa in prestito dal film: “Non andartene docile in quella buona notte”, dal poema di Dylan Thomas , in cui si insiste sul fatto che la vecchiaia dovrebbe reagire con furia e ardore “contro il morire della luce”.
Il documentario racconta la storia di Ivano e Meris, aggrappati fragilmente alla vita. La loro forza sta calando giorno dopo giorno e lasciar andare è difficile sia per loro che per i loro cari. Ciò che rende questo documentario interessante è che, a differenza di molte rappresentazioni delle cure di fine vita, i morenti non sono presentati come persone coraggiose ed emotivamente mature, responsabili delle loro emozioni e pronte a lasciare andare la vita. Ivano, in particolare, si ribella e si aggrappa alla vita con testardaggine, esprime la sua rabbia contro la morte imminente, fino a farsi travolgere dalla frustrazione.
Nessuno dei protagonisti è pronto a morire. Portano una prospettiva diversa rispetto all’idea che morire anziani dovrebbe essere un fatto naturale, a differenza del morire giovani. Per entrambi, l’urgenza di conservare la propria vita trasmette la magia della vita vissuta e il desiderio di stare con i propri cari. Entrambi sentono di avere ancora molto da dare e da ricevere.
La morte stessa è rappresentata splendidamente in entrambi i film. Il momento della morte non viene mostrato dalla telecamera, lo spettatore si ritrova sospeso, a riflettere, nel silenzio. Ciò che è più importante, negli ultimi momenti, è il senso dell’amore – l’amore per la vita e per le persone che contano. Quindi, ciò che è veramente importante nello sguardo dei documentari sulla morte non è che ci permettono di accettare la nostra stessa mortalità, ma piuttosto di imparare a comprendere che siamo vivi.
Outi Hakola
La scrittrice è docente di Studi Culturali (Università di Helsinki).
La sua competenza si estende al cinema di Hollywood, studi sulla produzione televisiva americana, studi di genere, la narratologia postclassica e le immagini nei media sulla morte e sul morire.
(https://docpointimpact.fi/en/blog/2016/01/28/outi-j-hakola-death-in-documentary-film/)