SUL PRENDERSI CURA

L’hospice è un luogo di cura destinato ad accogliere il malato affetto da patologia cronica e inguaribile: rappresenta non solo un luogo, ma anche una filosofia terapeutica che, attraverso le cure palliative, si propone di intervenire sulle dimensioni fisiche, psicologiche, sociali e spirituali della sofferenza. Qui parlamo di questo.

 

Le Cure Palliative consistono in una cura attiva, globale e multidisciplinare dei pazienti la cui malattia non risponde più ai trattamenti specifici e di cui la morte ne è la diretta conseguenza. Sono di fondamentale importanza il controllo del dolore fisico e il trattamento dei sintomi che peggiorano la qualità della vita, come la difficoltà a dormire o a deglutire o ad avere un’attività intestinale regolare; ma anche il trattamento dei problemi psicologici che la malattia o la ricezione della “cattiva notizia” innescano; o il trattamento dei problemi spirituali che affliggono il malato, perché la malattia crea una ferita nel nostro spirito, nel nostro sistema valoriale, e rischiamo di non sapere più quale sia il nostro ruolo nelle nostra famiglia, nella nostra comunità.

Con un approccio teso all’ascolto, sospendendo il giudizio, la cura si rivolge anche ai problemi sociali che investono il paziente e la sua famiglia.

 

Le Cure Palliative non si limitano, quindi, all’astensione dei provvedimenti inutili o sproporzionati, ma affrontano tutti i disagi del malato, cercando di portare un sollievo. E coinvolgono diverse figure professionali e specialistiche come medici, infermieri, operatori assistenziali, assistenti sociali, assistenti spirituali, psicologi, fisioterapisti, counsellor, musicoterapeuti e volontari.

L’Hospice è il luogo in cui si praticano le Cure Palliative.

 

Non è il luogo in cui si va a morire, ma dove si vive con dignità, dove veniamo riconosciuti come persone uniche e irripetibili e si viene aiutati a vivere, puntando il più possibile ad un rientro a casa della persona malata, eccetto nei casi in cui il trattamento dei sintomi fosse troppo difficoltoso per la famiglia. In diversi territori esistono anche servizi di Cure Palliative domiciliari, ma la rete non è ancora diffusa come dovrebbe.

Nelle Cure Palliative si parla di “comunicazione aperta”, che non significa dire al malato tutto, in modo brutale, ma rispettando la sua capacità di affrontare la verità e soprattutto significa non “difendersi” in quanto operatori, non deviare il discorso o evitare di raccontare storie incredibili.

Elisabeth Kübler-Ross, psicologa svizzera considerata la fondatrice della psicotanatologia, insiste sull’importanza di come viene informato il malato di tutta l’evoluzione della sua malattia. Si tratta di proteggere una comunicazione che deve consentire al malato di giungere alla sua verità: quella che riesce a tollerare. Il malato vicino alla morte ha bisogni specialissimi che possiamo conoscere solo se siamo disposti a stare ad ascoltare o a dare tempo.

Nella “Morte e il morire”, il libro che ha scritto sulla sua esperienza professionale, la Kübler-Ross invita a sintonizzarsi sulla fase che il paziente sta vivendo per non lottare quando lui è pronto ad accettare, per non mollare quando lui spera ancora e vuole lottare.

Il saggio è il risultato di una ricerca condotta intervistando circa 200 pazienti in fase molto avanzata della loro malattia. Tutti hanno gradito essere informati sulla gravità della situazione nell’intimità di una saletta appartata e non nel chiasso di un corridoio e tutti sono rimasti colpiti dal senso di solidarietà, che contava di più dell’immediata tragedia della notizia. Sentivano che non sarebbero stati “abbandonati”, che c’era un barlume di speranza, anche nei casi più avanzati. Così si stabiliva un legame di fiducia coi professionisti che li circondavano, cosa che li avrebbe aiutati a superare il nuovo stato di vita così pieno di tensioni.

Nel suo libro, la Kübler-Ross tenta di riassumere i meccanismi di difesa che insorgono durante una malattia senza speranze e elabora la teoria delle cinque fasi del dolore, stadi a cui si va incontro quando si affronta la “cattiva notizia” della morte vicina, che vale anche per un lutto, o un dolore vissuto come un lutto, come potrebbe essere la fine di una relazione importante.

 

La prima reazione è di rifiuto. “No, io no, non può essere vero”. Questi malati possono considerare la possibilità della morte per un po’ di tempo, ma poi devono accantonare questa considerazione per poter continuare a vivere. Questo è un modo salutare di affrontare una condizione così dolorosa, perchè agisce come un paracolpi e dà tempo al paziente di trovare il coraggio, col tempo.

La seconda fase è rappresentata dalla rabbia. Quando la prima fase di rifiuto non può più durare e ammettiamo che non si è trattato di un errore, che la disgrazia è caduta su di noi, subentra la rabbia. “Perchè io?!”, ci si chiede. Questa è la fase più difficile per i famigliari e per il personale, perchè la rabbia investe tutto e tutti, persino Dio, e non c’è mai nulla che vada bene. Ma se ci mettiamo nei panni del malato ed evitiamo di prendercela personalmente, non è difficile capirne le ragioni e a volte basta rimanere in ascolto o anticiparne i bisogni, per ridurre la rabbia. E’ comunque un bene che questa emozione esca.

La terza fase è quella del compromesso. Anche questa offre dei vantaggi al paziente, anche se per tempi brevi. “Se io collaboro, avrò una ricompensa?”. Il paziente propone un patto, come tentativo di dilazionare, per ottenere un premio per buona condotta, in un determinato limite di tempo come assistere al matrimonio di un figlio e veder spuntare le rose nel giardino, assicurando che poi non si chiederà più altro. Naturalmente questo non avverrà e i pazienti continueranno a negoziare, fissando, in questo modo, obiettivi più raggiungibili, rispetto alla guarigione.

Poi si giunge alla quarta fase, quando il malato incurabile non può più negare la sua malattia ed è costretto a subire interventi, o il ricovero, e diviene sempre più debole e magro, non può più essere sorridente. Lo stoicismo o la collera e la rabbia saranno sostituiti dal senso della grave perdita che subisce, dalla depressione, o per la condizione perduta o per le perdite che si dovranno affrontare. Come la madre che sa di dover abbandonare i figli piccoli: all’angoscia si aggiunge tristezza e senso di colpa. Non è di essere rassicurati che hanno bisogno questi pazienti, ma piuttosto di poter esprimere le proprie angosce, di poter rimanere in contemplazione di ciò che verrà. A volte hanno solo bisogno di vedere risolte le questioni finanziarie o logistiche che la loro morte causerà, per potersi preparare per la morte, per lasciare andare la vita.

E infine la quinta, l’accettazione. Se il paziente ha avuto abbastanza tempo e sufficiente aiuto per superare le prime quattro fasi, arriva all’accettazione, momento in cui non è più depresso, nè arrabbiato per il suo “destino”. Avrà potuto esprimere i suoi sentimenti, l’invidia per le persone sane e felici, la collera verso coloro che non sono nella sua condizione. Avrà provato tristezza al pensiero di doversene andare e contemplerà con una certa serenità la sua fine prossima.

Sarà stanco e, per lo più, debole. Avrà bisogno di assopirsi spesso per brevi periodi e non per lunghe ore, come quando era nella fase della depressione. Spesso avrà voglia di silenzio, anche se la presenza di qualcuno accanto sarà molto gradita, perché non farà sentire soli. Ma non si avrà più voglia di parole e uno sguardo, una carezza, la pressione di una mano possono dire molto di più di molte parole “dette”.

Questo nostro scritto è liberamente tratto da “La morte e il morire” di Elisabeth Kübler-Ross. Con la prefazione di Annamaria Marzi, di Cittadella Editrice-Assisi, Gennaio 2011